Nefropatia: prevederla ancora prima

DVA: una finestra sulle complicanze del diabete

Misurando la quantità di albumina presente nelle urine con un test molto semplice, è possibile diagnosticare la nefropatia diabetica a uno stadio assai precoce. L’albumina è una proteina importante per l’organismo e per questo un rene ben funzionante non la dovrebbe eliminare. Se lo fa, anche in piccole quantità, significa che la funzione di filtro esercitata dal rene e in particolare dai glomeruli inizia a essere danneggiata. Queste manifestazioni di danno renale nel diabete di tipo I sono precedute, dalla comparsa di retinopatia diabetica.

È vero che migliorando il controllo glicemico e pressorio è possibile rallentare di molto, ma non fermare l’evoluzione del danno renale. «Un intervallo di dieci anni fra la prima diagnosi di microalbuminuria e il grave danno renale è sicuramente un successo raggiunto dalla diabetologia, così come spostare in la di sette anni in media l’inizio della microalbuminuria come oggi si riesce a fare. Ma se questo risultato può essere sufficiente per una persona con diabete di tipo 2 non lo è per un ragazzo o giovane adulto con diabete di tipo 1 o con ipertensione», spiega Paolo Manunta Direttore della Cattedra e Scuola di Specializzazione in Nefrologia dell’Università Vita-Salute San Raffaele.

Il primo obiettivo di Manunta e del Laboratorio di Genomica delle Malattie Renali e dell’Ipertensione Arteriosa da lui diretto presso il San Raffaele è arrivare a una predizione del danno renale, definire cioè le persone a rischio di sviluppare nefropatia prima ancora che intervenga la microalbuminuria.

Come? «Sappiamo ormai da tempo che la nefropatia è preceduta dai primi segni di retinopatia, anche se questi sono più difficili da diagnosticare. Lo stesso meccanismo provoca il danno al microcircolo della retina e del glomerulo», spiega Manunta, laureato a Sassari, specializzato a Sassari e Milano, arrivato nel 1994 al San Raffaele dopo tre anni di ricerca negli Usa, «la presenza di microalbuminuria diagnostica in modo precoce il danno renale, ma noi vogliamo andare oltre e arrivare alla predizione della complicanza».

Il gruppo di Manunta è riuscito a valutare con l’ecodoppler renale (una biopsia renale non si giustificherebbe come metodo di semplice screening) degli indici di reattività vascolare collegati alla funzionalità del rene. Occorrono strumenti molto sensibili e una tecnica non comune per effettuare questa misurazione.

«Noi vogliamo validare questa tecnica associandola a una valutazione meno invasiva e meno operatore-dipendente, ma egualmente predittiva quale il Dynamic Vessel Analyzer, resa possibile dallo strumento che Sostegno 70 ha donato al nostro ospedale», continua Manunta.

In pratica lo stesso giovane adulto considerato a rischio perché iperteso, ma ancora senza complicanze, sarà sottoposto sia all’esame con il DVA sia all’ecodoppler renale.

Ma non basta. Diabetologi e nefrologi sospettano ormai da tempo che la propensione di una persona a rischio a sviluppare o a non sviluppare nefropatia dipenda, a parità di controllo pressorio e/o glicemico, dal codice genetico. Un certo numero di SNPs cioè di mutazioni puntiformi del Dna sono state ‘sospettate’ essere associate a questa propensione rispetto al danno renale.

«Il nostro gruppo, utilizzando uno strumento simile al DVA e insieme a un gruppo belga, sta iniziando uno studio per la valutazione dell’indice di resistenza vascolare renale (RI) possibile maker precoce di danno renale. Vogliamo ora sottoporre delle persone a rischio non solo al DVA e all’ecodoppler ma anche a un esame del fenotipo genetico in modo da confermare le correlazioni», spiega Manunta. «Questa ricerca, in fase di valutazione da parte della SIN per il finanziamento, verrà condotta dal Guido Gatti, specializzando in Nefrologia».

L’obiettivo è da una parte validare il DVA come strumento in grado di predire la comparsa di nefropatia diabetica e/o nefropatia ipertensiva nella fase in cui questo rischio può ancora essere scongiurato o comunque ritardato, dall’altra di confermare l’esistenza di configurazioni genetiche che aumentano questo rischio.

Questa potrebbe essere la base di una terapia farmacogenetica. «Se noi possiamo confermare che quel gene produce una maggiore propensione alla nefropatia possiamo darci l’obiettivo di identificare farmaci che vanificano l’attività di quel gene o meglio delle proteine ed enzimi che quel gene ordina di produrre o di non produrre», sottolinea il docente.

Un progetto di larga portata che ha comunque ricadute immediate. «Una validazione del ruolo del DVA nella predizione della complicanza renale, oltre ovviamente a quella retinica, rappresenterebbe un risultato di non poco conto, soprattutto visto che si tratta di un esame non invasivo. Letteralmente guardando negli occhi il paziente possiamo sapere molto del funzionamento di un organo più nascosto e difficile da studiare come il rene», chiarisce Manunta.

Lo studio è in fase di disegno e interesserà alcune decine di giovani adulti ipertesi (ma le sue conclusioni potranno essere replicate su pazienti diabetici). «Contiamo di presentarlo al Comitato Etico in estate e potremmo iniziarlo in settembre», commenta Manunta. Trattandosi di uno studio ‘fotografico’ le conclusioni potrebbero essere tratte e pubblicate nell’arco di un anno al massimo. «Certamente potrebbe essere interessante seguire questi pazienti con follow up periodici per verificare l’insorgenza della nefropatia o della retinopatia», conclude Paolo Manunta, «ma alcuni frutti li possiamo raccogliere subito».

Paolo Manunta, Direttore della Cattedra e Scuola di Specializzazione in Nefrologia dell’Università Vita-Salute San Raffaele.